Il silenzio e la poesia nell’ultimo libro di Gianni Loy
di Riccardo Escudero Rodrìguez
La lettura dell’ultimo libro di Gianni Loy, “L’ultima notte a Hellissandur”, edito da Condaghes, mi ha affascinato. Sia per la scrittura, dotata di un ricco e preciso vocabolario, sia per la bellezza e l’espressività delle figure letterarie. Nella scrittura si percepiscono, in maniera inequivocabile, il grande amore dell’autore per la poesia e la sua anima di poeta. Non amo i libri scritti con prosa facile o troppo banale. Mi piacciono gli autori che curano sia la forma che la trama del racconto e riescono a creare un equilibrio tra ciò che raccontano ed il modo con cui lo esprimono. Passando al contenuto del libro, l’autore, proprio all’inizio, fa una dichiarazione di principio: “Vita non è solo ciò che sperimento tutti i giorni. Vita è tutto quello che mi passa per la mente”. In una mente inquieta, come quella dell’autore, dotata di grande curiosità e sensibilità, passano sicuramente molte cose, molte emozioni. [segue] Il silenzio, inteso quale fonte di creazione letteraria, è presente in tutto il racconto. L’autore, nel far riferimento al silenzio di Ólafur – suo evidente alter ego – scrive: “Egli era abituato a far convivere il proprio silenzio persino con il frastuono delle grandi città … a volte gli amici lo credevano in mezzo a loro, lui lo lasciava intendere abilmente, e invece i più delle volte stava altrove … La compagnia gli veniva principalmente dai pensieri, essi sì che lo accompagnavano ininterrottamente, non lo abbandonavano neppure per un momento … A volte, l’immaginario e la realtà si fondevano, e se ne stava così, appeso al tempo che passava, incapace di distinguere tra l’immaginario delle sue letture e la realtà dei propri passi.” (pag. 45). Questa descrizione, mi ha fatto ritornare alla mente una descrizione del grande Octavio Paz: “Enamorado del silencio, el poeta no tiene mas remedio que hablar”, in questo caso, attraverso la parola. La lettura del lungo racconto – o romanzo breve – mi ha trasportato, con grande naturalezza, in un paese che non conosco ma del quale ho sentito parlare molto e bene. Mi ha accompagnato in un ambiente assai distante dalle mie conoscenze, in un ambiente, a prescindere dall’aspetto estetico, molto curato, arido, misterioso e crudele. Son rimasto sorpreso di come l’autore, a seguito di un viaggio ormai risalente a molti anni fa, sia stato in grado di estrarre tante impressioni e di ricostruire in maniera così approfondita l’ambiente e le sensazioni delle persone che vi abitano. Sensazioni trasmesse in maniera efficace, e credibile, nella descrizione dei 4 personaggi che animano la scena del romanzo. Ho trovato significativo il fatto che una persona che proviene da fuori – un forestiero in transito – magnificamente rappresentato dal buon Ólafur, che arriva da un ambiente cosmopolita e complesso, scopra che un ambiente apparentemente idilliaco ed invidiabile possa essere in realtà, una vera prigione per coloro che ancora subiscono ataviche maledizioni e che, in quel luogo, annegano la propria esperienza di vita. E’ presente una dualità, se non un forte contrasto, fra una natura con caratteristiche peculiari e bellissime, almeno sotto il profilo estetico, per la presenza di vulcani e dei geyser, e la dura condizione delle tre sorelle. Insomma, un’isola mitizzata, gradita meta di un tipo di turismo elitario, può nascondere, al proprio interno, storie umane dolorose. Ho molto apprezzato, nel romanzo, la capacità dell’autore di mimetizzarsi nella particolare atmosfera di un paese così piccolo e speciale, l’Islanda, e di immedesimarsi nelle pieghe complesse della personalità di suoi abitanti, cioè nelle loro emozioni, frustrazioni e limitazioni. Una storia misteriosa, descritta con grande sensibilità, mantiene alto l’interesse e l’attenzione del lettore lungo tutto il racconto. Una storia non conclusa, visto che le scelte, e i dubbi, rimarranno irrisolti sino alla fine. La creazione che Gianni Loy fa del mondo solitario, tragico e senza speranza delle tre sorelle è davvero geniale. La descrizione dell’ambiente nel quale le tre sorelle sono condannate a vivere e la spiegazione di come il loro destino sia ostaggio di antiche leggende è sublime. Sono temi ricorrenti l’eterno ritorno, la nostalgia, la solitudine, la noia, le maledizioni, la vita incatenata di molte donne e la loro ricerca disperata di liberazione personale, l’incomunicazione, il mistero, il destino, il trascorrere del tempo, il peso di una natura bella ma ostile, l’idealizzazione di quello che non si conosce…. Per altro verso, il romanzo denota una decisa impostazione femminista, nonostante sia un maschio a provocare la confessione della condizione personale delle sorelle, la loro reazione e le loro aspettative. Non è casuale, insomma, il fatto che l’autore incorpori la dimensione di genere. La denunzia della condizione atavica delle tre donne appare come uno dei messaggi più chiari del libro. Altro elemento di straordinaria capacità evocativa è costituito dall’onnipresenza del fattore tempo, che spazia dall’iniziale descrizione della creazione ad opera della Divinità, allo svolgimento della vicenda personale di Ólafur, ai tempi lunghi delle leggende islandesi. Il tempo, cioè, è inteso quale elemento determinante della storia. Il racconto si avvia con ritmo lento. Occorre, prima di tutto, presentare l’atmosfera di quel luogo nascosto, nel quale la presenza delle tre donne, al pari dell’albergo, sembra quasi inerte, quasi fosse parte del paesaggio. Ma, ad un certo punto, il susseguirsi delle conversazioni tra Ólafur e le misteriose sorelle conferisce alla storia un inaspettato dinamismo, un “crescendo” che si impone, con buon ritmo, e cattura l’attenzione del lettore che incomincia a chiedersi quale sarà il comportamento dei protagonisti in quell’inaspettato labirinto di solitudini. La combinazione degli elementi reali con quelli tratti dalla mitologia islandese è assai efficace, in particolare il connubio tra la leggenda degli elfi ed i personaggi reali implicati nella storia, le tre sorelle. Il contrasto tra mito e realtà è ben articolato. Il fatto di mescolare elementi mitologici con avvenimenti del tempo presente offre al romanzo una dimensione più contrastata. L’autore riesce creare un buon equilibrio tra i due estremi del binomio, realtà e irrealtà. Da una parte l’albergo deserto e le persone vi abitano e vi lavorano, dall’altra gli elfi e la millenaria profezia che condiziona, come una maledizione, la vita e il destino delle sorelle. La lettura di questo racconto, in definitiva, rafforza un’idea che già mi ero fatto: l’autore ha grande capacità di scrittura letteraria. Il romanzo denota il possesso di notevole maturità; consente di apprezzare la spiccata sensibilità nel costruire personaggi e creare una trama che sembra semplice, ma non lo è affatto. Una storia breve, molto bella, che apprezzo particolarmente in tempi nei quali la quantità eccede, a volte, sulla qualità. Gianni Loy, con quest’opera, si dimostra capace di catturare diverse sfumature della psicologia delle persone e della vita. Si dimostra attento osservatore della realtà, umana e fisica, capace di conservare nella propria rètina immagini che riesce poi a descrivere, senza barocchismi, con maestria e semplicità. Un libro, insomma, che cattura assai bene i ritmi e le chiavi dell’anima islandese, così come la vede un viaggiatore che, lungo il proprio itinerario, scopre una realtà nella quale tre sorelle sono imprigionate da vecchie mitologie, impedite di essere libere e di poter scegliere un’altra vita. La lettura di questo racconto mi ha ricordato, per alcuni tratti, la visione letteraria del grande Borges che, come è noto, ama incorporare nei racconti leggende mitologiche, rivendicando, con assoluta maestria, il mitico passato di molti paesi. Devo confessare che il capitolo dedicato alla Divinità, in un primo momento, mi ha lasciato spiazzato, probabilmente perché ho sempre preferito la mitologia alla religione. Ma ho capito che quella parte contiene alcune chiavi utili alla comprensione della storia, come la creazione dell’universo, la misura del tempo o il riconoscimento dell’imperfezione umana….. Mi piace concludere richiamando la frase iniziale del racconto, perché mi ha fatto davvero riflettere. “Prima di ogni cosa, Dio creò il tempo, poi creò gli angeli, poi il mare e la terra, infine creò l’uomo e la donna. Nessuna di queste cose gli riuscì perfetta. Rimarrebbe da scoprire se l’imperfezione fu voluta o se, invece, fu determinata da un errore dovuto all’inesperienza. Scoprirlo, tuttavia, non allevierebbe la nostra pena né potrebbe, in alcun modo, cambiare i pensieri di Olafur”. Leggendo questa frase, e ripensando alla mia personale concezione della storia, mi è ritornata alla mente l’affermazione di Borges, secondo il quale l’Antico Testamento è stato uno dei primi – e migliori – romanzi del genere fantastico. Da quando ho letto quella definizione, ho incominciato a guardare con occhio diverso, e meno critico, la religione cristiana; ho scoperto che è possibile intenderla in altro modo…